NON SCORDO...FABRIZIO QUATTROCCHI

 Fabrizio (ci piace chiamarlo per nome anche se non lo abbiamo conosciuto) è morto da eroe. "Vi faccio vedere come muore un italiano", sono parole da eroe perché racchiudono coraggio, dignità e amore per la propria Nazione. I nuovi barbari avrebbero voluto vedere un uomo implorare pietà, dimostrare paura e con questo intimidire il nostro popolo e dimostrare la loro superiorità "guerriera". Fabrizio ha riso loro in faccia, a tutti i loro stereotipi dell'Europeo debole e opulento. Ha fatto l'unico atto che un uomo legato e incappucciato poteva fare per il proprio paese: non darla vinta a chi vuole vederci intimoriti. Il suo ultimo pensiero è stato per il proprio paese, non per sé, non per la famiglia o la fidanzata. E' morto con fierezza dando così di tutti gli italiani una immagine di fierezza, il più grande smacco che si potesse dare ai terroristi. Con un gesto, grazie al suo coraggio, Fabrizio, da solo ha vinto una importante battaglia contro chi crede di poter minacciare il nostro popolo. Grazie Fabrizio

il testo:COSI' MUORE UN ITALIANO


Fragile vita mia, in un secondo
te ne stai andando da questo mondo
non riesco neanche più a disprezzare
chi alla mia vita sta dando fine

Non ho più lacrime da versare
io sono un uomo che sa accettare
non mi interessa più la giustizia
il fucile punta già la mia testa

Non voglio sapere neanche il perché
se era destino che toccasse a me
le palpebre pesano sopra i miei occhi
e mi rassegno al fatto che mai più la rivedrò

E davanti a me c'è un grande prato di girasoli,
io disteso guardo su
ferite non ho e dagli affanni sono lontano
così muore un italiano

Sbiadite immagini nei pensieri
mi mostrano i pianti dei mie cari
troppo difficile rassegnarsi
gli direi com'è qui se potessi

Perché conoscevo le probabilità
sapevo dei rischi che questo lavoro ha
Dio mio tu perdonali anch'io lo farò
ti prego fai in modo che si ricordino di me

Da quando son qua mi trovo a stare sopra le stelle
e dormo sulle nuvole
e ovunque io sia c'è Lui che mi accompagna per mano

E davanti a me c'è un grande prato di girasoli,
io disteso guardo su
ferite non ho e dagli affanni sono lontano
così muore un italiano

A proposito di ...: 23 maggio,19 luglio: Stragi di Stato

"....Io mi chiedo invece, con amarezza, di quante altre stragi, di quanti altri morti avremo ancora bisogno perchè da parte dello Stato ci sia finalmente quella reazione decisa e soprattutto duratura, come finora non è mai stata, che porti alla sconfitta delle criminalità mafiosa e soprattutto dei poteri, sempre meno occulti, ad essa legati, perché venga finalmente rotto quel patto scellerato di non belligeranza che, come disse il giudice Di Lello il 20 Luglio del 1992, pezzi dello Stato hanno da decenni stretto con la mafia e che ha permesso e continua a permettere non solo la passata decennale latitanza di boss famosi come Riina e Provenzano ma la latitanza e l’impunità di decine di “capi mandamento” che sono i veri padroni sia di Palermo che delle altre città del-la Sicilia.



Da parte mia sono certo che non riuscirò a conoscere la verità in quel poco che mi resta da vivere dato che, a 65 anni, sono solo un sopravvissuto in una famiglia in cui mio padre, il fratello di mio padre, mio fratello, sono tutti morti a 52 anni, i primi per cause naturali, l’ultimo perché era diventato un corpo estraneo allo Stato le cui Istitu-zioni egli invece profondamente rispettava (sempre le Istituzioni, non sem-pre invece quelli che le rappresentavano).
Spero soltanto che, in questo anniversario, mi siano risparmiate la vista e le parole dei tanti ipocriti che oggi piangono su Paolo e Giovanni quando, se fossero ancora in vita, li osteggerebbero accusandoli, nella migliore delle ipotesi , di essere dei “professionisti dell’antimafia” o li farebbero addirittura spiare da squallidi personaggi come Pio Pompa come “nemici” o come “braccio armato della magistratura” .
Chiedo solo, in questa occasione, di avere delle risposte ad almeno alcune delle tante domande, dei tanti dubbi che non mi lasciano pace.
Chiedo al Proc. Pietro Giammanco, allontanato da Palermo dopo l’assassinio di Paolo, ma promosso ad un incarico più alto piuttosto che rimosso come avrebbe meritato, perché non abbia disposto la bonifica e la zona di rimozione per Via D’Amelio.
Eppure nella stessa via, al n.68 era stato da poco scoperto un covo dei Madonia e, a parte il pericolo oggettivo per l’incolumità di Paolo Borsellino, le segnalazioni di pericolo reale che pervenivano i quei giorni erano tali da far confidare da Paolo a Pippo Tricoli lo stesso 19 Luglio : “e’ arrivato in città il carico di tritolo per me”.
A meno che, come affermato dal Sen. Mancino in un suo intervento del 20 Luglio alla camera, anche lui credesse che “Borsellino non era un frequentatore abituale della casa della madre” : infatti vi si recava appena almeno tre volte alla settimana !
La stessa domanda inoltro all’allora prefetto di Palermo Mario Jovine anche se la risposta ritiene di averla già data con l’affermazione fatta in quei giorni: “Nessuno segnalò la pericolosità di Via D’Amelio” .
Affermazione palesemente risibile : in quei giorni si erano susseguite le segnalazioni di possibili attentati a Paolo Borsellino e bastava interrogare gli stessi agenti della scorta, cinque dei quali morti insieme a lui, per sapere quali erano i punti più a rischio.
Chiedo alla Procura di Caltanisseta, e in particolare al gip Giovanbattista Tona, il motivo dell’archiviazione delle indagini relative alla pista del Castello Utveggio : eppure proprio da questo luogo partirono, subito dopo l’attentato, delle telefonate dal cellulare clonato di Borsellino a quello del Dott. Contrada, oggi finalmente condannato in via definitiva dalla Corte di Cassazione per collusione e favoreggiamento.
Chiedo alla stessa Procura di Caltanissetta, e sempre allo stesso gip Giovanbattista Tona, i motivi dell’archiviazione dell’inchiesta relativa ai mandanti occulti delle stragi.
Per un’altra archiviazione, quella relativa alle vicissitudini del fascicolo relativo alla Fincantieri ho già inoltrato richiesta di chiarimenti in via ufficiale.
Chiedo alla Procura di Caltanissetta di non archiviare, se non lo ha già fatto, le indagini relative alla sparizione dell’agenda rossa di Paolo e di chiarire il coinvolgimento dei tutte le persone, dei servizi e non, in essa coinvolte.
Chiedo soprattutto al sen. Nicola Macino, del quale ricordo, negli anni immediatamente successivi al 1992, una sua lacrima spremuta a forza durante una commemorazione di Paolo a Palermo, lacrima che mi fece indignare al punto da alzarmi ed abbandonare la sala, di sforzare la memoria per raccontarci di che cosa si parlò nell’incontro con Paolo nei giorni im-mediatamente precedenti alla sua morte.
O spiegarci perché, dopo avere telefonato a Paolo per incontrarlo mentre stava interrogando Gaspare Mutolo, a sole 48 ore dalla strage, gli fece invece incontrare il capo della Poliza Dott. Parisi e il Dott. Contrada, incontro dal quale Paolo uscì sconvolto tanto, come racconto lo stesso Mutolo, da tenere in mano due sigarette accese contemporaneamente.
Altrimenti, grazie alla sparizione dell’ agenda rossa di Paolo, non saremo mai in grado di saperlo.
E in quel colloquio si trova sicuramen-te la chiave dalla sua morte e della strage di Via D’Amelio."  (Lettera aperta del 18 luglio 2007 di SALVATORE BORSELLINO)

A proposito di ...: John Milius

La spada e il drago

Senso dell'onore e segni del mito nel cinema di John Milius


John Milius


John Milius

Il giovane John Milius a diciasette anni tentò di entrare nei marines. Il suo sogno fu però reciso sul nascere del rifiuto da parte del corpo militare del suo arruolamento a causa dell'asma che lo affliggeva. Allora decise di vivere i sogni di gloria che tanto lo appassionavano attraverso lo schermo.
   Fraquentò la scuola di cinema con Coppola, Spielberg, Scorsese e De Palma, cineasti che negli anni settanta avrebbero sconvolto Hollywood divenendo, chi più chi meno, potentissimi. Il suo destino fu di rimanere fuori da questo giro, infatti si è ormai ridotto a lavorare per la televisione. Ma il suo segno nel cinema è rimasto profondo.
   Nelle sue prove migliori utilizza la cinepresa con lo stesso spirito epico con cui, mi si perdoni il paragone azzardato, un Omero o un Tolkien crearono autentiche epopee.
 Ciò che conta per lui sono l'onore e il coraggio: sentimenti ormai perduti in quest'epoca. Forse proprio per questo egli è ormai quasi dimenticato.
   Milius si rivogle al mito, infatti molti suoi film vengono narrati da personaggi secondari che raccontano le gesta di eroi destinati alla sconfitta e consci di essere ultimi rappresentanti di una razza estinta, quasi desiderosi di trascinare con sè nella rovina e nella battaglia finale tutto il loro leggendario mondo, come in un lamento di distruzione del Valhalla, il paradiso degli eroi morti in guerra.


Conan il barbaro


Conan il barbaro


Fondamentale anche il rispetto e l'ammirazione per il valore del nemico, anzi più il nemico è valoroso e più gloria vi sarà sconfiggendolo.
 O venendone sconfitti.
 
 L'orgoglio del re
 
 "Addio al re" è stato un film sfortunato, poco amato dal pubblico e da gran parte della critica, anche perchè ritenuto, per così dire, "passatista", troppo classico. La storia è tratta da un romanzo di Pierre Schoenderffer, un intellettuale francese di destra; Milius apre però il film con una citazione del comunista Malraux: ciò che conta non è l'ideologia, è l'uomo. La pellicola è un disperato inno alla libertà (una libertà purtroppo perduta per sempre): un inno intriso di poesia selvaggia. Il drago tatuato sul petto del re sembra lanciare un urlo di orgoglio e di odio contro tutti quelli che vogliono distruggere il suo paradiso. Il re è una sorta di fratello del Kurtz di "Apocalypse now" (ricordiamo che Milius ne era stato cosceneggiatore). Mentre Kurtz nella foresta ha trovato il suo inferno, il re vi ha trovato il paradiso, un paradiso che però verrà annientato nel fuoco e nel sangue.


Conan il barbaro


Conan il barbaro


Nemico qui sarà il colonnello giapponese, siamo alla fine del secondo conflitto moondiale, detto "Fantasma" che combatte "come Gengis Khan". Il Fantasma non sarà mai preso se non quando deciderà egli stesso di consegnarsial re per poter "rivedere il cielo". Il colonnello, con i suoi uomini, si era abbandonato ad atti di inaudita ferocia per sopravvivere, tra cui il cannibalismo: l'unico a comprendere il perchè di questa barbaria sarà proprio il re: l'onore e il dovere.
   Il re chiama i suoi selvaggi del Borneo, Comanche perchè hanno nello sguardo la stessa fierezza dei pellerossa americani, prima di essere sopraffatti. D'altronde questi paragoni hanno sempre affascinato Milius che in un intervista sull sua sceneggiatura di "Geronimo" realizzata da Walter Hill paragona gli Apache ai Vietcong.
   Alla fine resterà solo la sofferenza e il coraggio degli eroi, nella stanca memoria di chi potè conoscere "l'ultimo re di Borneo".
   
   Il potere della spada
   
   "Conan il barbaro", da non confondersi con il seguito, "Conan il distruttore", e con le svariate imitazioni, anche italiane, che possono interessare al massimo qualche fanatico del trash, è dietro l'apparenza, per così dire, grazza e commerciale, un'opera che si rivogle direttamente allo scontro tra ghiaccio e fuoco, acciaio e magia, potere e solitudine: in una parola al mito. Milius dichiarò di aver voluto realizzare una pellicola "barbara e pagana". Estaticamente le influenze sono tanto disparate da poter apparire sincretiche: si va dalle illustrazioni di fantasy eroica di Frank Franzetta alle armature, in particolare gli elmi, di Aleksandr Nevskij di Ejzenstejn.


Un'illustrazione di Frank Franzetta


Un'illustrazione di Frank Franzetta


A girarlo inizialmente doveva essere Oliver Stone che aveva progettato un eroe post atomico, un po' alla "Mad Max". Dopo la defezione di Stone e il rifiuto di Ridley Scott fu Milius ad essere indicato e creò un personaggio da epopea che trova però nel suo trionfo solo amarezza e solitudine senza fine.
   Questi temi complessi saltano all'occhi malgrado i molti momenti di ironia del film, come quando l'eroe si permette, beffardo, di mandare "alla malora" gli Dei prima della battaglia.
   Il tutto intriso da un'autentica sinfonia di guerra scritta da Basil Pouleduris, il cui rapporto con Milius può ricordare quello tra Sergio Leone ed Ennio Morricone.
   Il finale fa il verso ad "Apocalypse now": entrambe le pallicole si concludono con un'uccisione in un palazzo di potere dopo che l'assassino (là Willard, qua Conan) è salito lungo una scala apparentemente infinita.
   Nella prima parte Conan prende la sua spada da una tomba sotterranea in cui è seduto lo scheletro di un antico re guerriero: appena il cimmero fa ciò lo scheletro in armatura si sgretola. Questo perchè un guerriero senza la sua spada è come un re senza il suo orgoglio: non vale più nulla.


John Milius: un barbaro sofista.

John Milius

La ventesima edizione del Torino Film Festival ha ospitato un’ampia retrospettiva su John Milius: film diretti o sceneggiati dall’imponente membro della NRA (National Rifle Association) hanno fatto la felicità di un pubblico di appassionati dell’autore.
L’accoglienza al controverso cineasta è stata calorosissima: una sala gremita e molti applausi hanno festeggiato l’intervento del regista per la proiezione di Big Wednesday (Un mercoledì da leoni, 1978). Milius ha parlato della sua passione per il surf, della necessità che lo ha spinto a trentaquattro anni a girare un film su questo sport e sulla filosofia di vita che lo anima. Ha accennato alle stroncature che nel 1978 si sono abbattute sull’opera, apprezzata ai tempi dalla sua uscita solo a Washington, in Nebraska, in Giappone e in Italia.
La vendita di videocassette e di Dvd ha compensato il danno economico causato dal flop del film al botteghino e Big Wednesday è diventato un film culto per i surfisti di tutto il mondo. Sarebbe riduttivo circoscrivere l’interesse di questa pellicola alle splendide scene di surf, girate in mare, senza artifici, con attori capaci di cavalcare le onde e con l’ausilio di alcuni dei più celebri surfisti di tutti i tempi (Jerry Lopez
, Bill Hamilton, Ian Cairnes, Jay Riddle, Jackie Dunn e Peter Townend).


Un mercoledì da leoni

Big Wednesday non è film di genere sul surf, è un romanzo di formazione. Un gruppo di amici attraversa le fasi della vita dalla giovinezza spensierata alla maturità. Alcuni andranno in guerra, altri resteranno a vivere le difficoltà quotidiane: mutui da pagare, un lavoro per vivere, gli anni che passano e gli amici perduti.
La poesia del mare, le onde, la forza dell’acqua e del vento sono palpabili in questo film malinconico sull’amicizia virile e sull’iniziazione alla vita, manifesto del malessere esistenziale della generazione che conobbe la guerra del Vietnam e che trovò i propri interpreti in Scorsese, Spielberg, Coppola, Cimino.
John Milius è conosciuto come regista di film considerati commerciali e come esponente della destra bellicista statunitense, e nei suoi film si tende a ricercare prove a conferma dell’immagine di falco che i media hanno creato per lui.
Spesso ci si dimentica della poesia che è sempre presente nelle sue pellicole, della bravura nel creare dialoghi scarni e incisivi, della capacità di dare vita a storie epiche mai noiose, buone per piacere al grande pubblico ma anche alle cosiddette élite. Come dimenticare che Milius è lo sceneggiatore di film originali e indimenticabili come Apocalypse Now The Life and Times of Judge Roy Bean (L’uomo dai sette capestri) e 1941(1941: Allarme a Hollywood, 1979)?
Non si possono negare il tono elegiaco delle sue pellicole, l’atmosfera crepuscolare, il profondo senso della natura: davanti ai film di John Milius si ha la netta percezione della solitudine dell’uomo e della difficoltà di non soccombere a una vita che disillude e inasprisce.

Alba rossa

Gli adolescenti che organizzano la resistenza statunitense contro gli invasori cubani e sovietici in Red Dawn (Alba rossa, 1984), film contestatissimo, sono il prototipo degli eroi alla Milius, soli contro tutti ma uniti da un’amicizia che fa pensare alla cavalleria medievale, immersi in una natura bellissima ma indifferente alle tragedie umane (da Conan il barbaro: “La montagna non si cura degli uomini”), accerchiati e votati alla violenza per difendersi e vendicarsi.
Che sia un racconto del genocidio dei nativi americani camuffato sotto la maschera di un’invasione comunista o una mossa filo-repubblicana, Red Dawn è un film inquietante che mostra lo sgretolamento della società americana: famiglie divise, campi di detenzione per statunitensi, sovietici a spasso per le cittadine americane, liceali rifugiati come partigiani sulle montagne. È difficile dimenticare che la programmazione di questa pellicola patriottica nelle sale ha coinciso con la campagna elettorale conclusasi con la vittoria di Ronald Reagan. Si deve tuttavia ammettere che la ‘tesi indiana’ regge: che i ragazzi della resistenza statunitense assomigliano ai guerrieri che tentavano di arginare la dilagante civilizzazione dei bianchi nelle terre dei bisonti.

Conan il barbaro

L’incubo dell’accerchiamento, del pericolo incombente, del nemico acerrimo è una costante dei film di Milius: si tratti dei fantasmi della vita, dei russi, dei serial killer di Callaghan o dei banditi dello scalcinato ma poetico West del giudice Roy Bean.
Milius ama il western e in particolare John Ford. Ha confessato al pubblico di Torino di aver visto quarantasette volte The Searchers, di essere stato folgorato da questo film dove paesaggi d’impareggiabile bellezza fanno da scenario alla dura vita di coloni alle prese con gli indiani e con la desolazione di un territorio selvaggio.
Il debito e l’amore di Milius per Ford sono esplicitati nel documentario di Nick Redman A Turning of the Earth – John Ford, John Wayne & “The Searchers” dove l’autore di Big Wednesday parla con ammirazione del modo unico che Ford aveva di interpretare la natura, il cielo chiarissimo, i tramonti. John Ford amava e conosceva la terra della Monumental Valley con cui aveva un vero ‘affare di cuore’: si è tentati di dire che allo stesso modo Milius conosce e ama il mare, le onde e il vento, il “vento teso che polverizza le creste delle onde” o il “vento caldo chiamato Santana che porta profumi di terre tropicali”.
In Big Wednesday e persino in Conan the Barbarian (Conan il barbaro, 1981) Eolo è protagonista: “Da dove verrà il vento? Dicono che sia il respiro di Dio. Chi dà veramente forma alle nuvole?”.

Addio al re

Milius prende molto sul serio gli elementi naturali, al punto che si potrebbe parlare di animismo: le onde di Big Wednesday, il fuoco in cui si forgiano le spade in Conan the Barbarian, l’aria e la terra sterminata, coperta dagli abeti in Alba rossa, dalle praterie in Conan e ipertrofica in Farewell to the King (Addio al re, 1988), sono divinità potenti che l’uomo sfrutta senza comprendere.
Milius trasmette il rispetto e l’umiltà dell’essere umano di fronte a una natura bellissima ma distante. Il male non appartiene alla natura. Gli uomini scelgono la violenza e la distruzione, il male è nell’arbitrio dei singoli o è forse un istinto atavico e difficile da contrastare?
A parte il malvagio e misterioso cattivo di Conan the Barbarian e lo psicopatico di Dirty Harry (Ispettore Callaghan: il caso Scorpio è tuo, 1971),i personaggi negativi non sono tali in modo assoluto, c’è un riscatto possibile che coincide con la clemenza.
L’ufficiale cubano di Red Dawn risparmia i due protagonisti in nome dei suoi trascorsi nella guerriglia di liberazione e si rende conto dell’inutilità della guerra: alla fine quello che conta sono gli occhi della sua donna che da tempo non vede. Sembra a tratti che l’esito della battaglia non conti veramente, che lo scopo della guerra sia mietere vittime, che non ci sia un premio o un valore per cui battersi.
Che cosa ci fanno i sovietici a Calumet, Colorado? E i cubani? Che cosa ci facevano i soldati statunitensi in Viet-Nam?
Il cielo di Milius, l’azzurro sopra le onde di Big Wednesday è forse il cielo del principe Bolkonskij, ferito sul campo di battaglia in Guerra e pace: “Al di sopra di lui non c’era più nulla, non c’era che il cielo – un cielo alto, non luminoso ma incommensurabilmente alto […] come mai non ho veduto prima questo cielo sublime? E come sono felice di averlo finalmente conosciuto! Sì! Tutto è vano, tutto è illusione tranne questo cielo infinito”. Temiamo che non sia proprio così!
Ridurre la posizione di Milius sulla violenza e sulla guerra a un pensiero unitario e omogeneo è un’impresa impossibile. John Milius voleva partire volontario in Viet-Nam ma è stato dichiarato inabile per problemi di asma. La scena della visita militare in Big Wednesday è, nonostante l’interventismo mostrato dal regista, un capolavoro di ironia. L’autore è ben lungi dal condannare chi tentava di non partire per la guerra.
John Milius è andato in Iraq a fotografare la guerra e si rammarica della brevità dell’operazione Desert Storm augurandosi che il prossimo conflitto si protragga a lungo, potrà così ritrarre con più agio il suo tema preferito (non a caso si riferisce a Francis Ford Coppola definendolo “il mio Führer” e rivendica il diritto dei cittadini americani ad armarsi e a sparare).
Questo regista-sceneggiatore imbevuto di nazionalismo ha fatto film in cui la controcultura giovanile si è riconosciuta (Corvo rosso, non avrai il mio scalpo, 1972) ha satireggiato il militarismo americano in 1941: Allarme a Hollywood, ha dato vita a personaggi epici che sono sempre degli antieroi, e mostrato la realtà com’è, ovvero poco brillante e piuttosto deprimente. Basti pensare al perenne senso di disgusto dipinto sul poco mobile ma sempre efficace volto di Clint Eastwood in Dirty Harry.
I toni di Milius non sono mai quelli della fanfara o della marcetta propagandistica al servizio del potere o di un’ideologia.
Viene il dubbio che John Milius sia un sofista, uno che si diverte ad assumere posizioni contraddittorie per esplorare diversi punti di vista senza nulla dare per scontato; viene il dubbio che sotto la sua sincera scorza di politicamente scorretto ci siano tendenze anarcoidi e la rivendicazione del diritto a sostenere posizioni inconciliabili tra loro, a fare delle prove, a non dire mai l’ultima parola sui temi del suo cinema.

A proposito di ...: Paolo Borsellino

Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940 in una famiglia borghese, nell'antico quartiere di origine araba della Kalsa. Entrambe i genitori sono farmacisti. Frequenta il Liceo classico "Meli" e si iscrive presso la facoltà di Giurisprudenza di Palermo: all'età di 22 anni consegue la laurea con il massimo dei voti.
Membro dell'esecutivo provinciale, delegato al congresso provinciale, nel periodo universitario Paolo Borsellino viene anche eletto come rappresentante studentesco nella lista del Fuan Fanalino.

Pochi giorni dopo la laurea subisce la perdita del padre. Prende così sulle sue spalle la responsabilità di provvedere alla famiglia. Si impegna con l'ordine dei farmacisti a tenere l'attività del padre fino al conseguimento della laurea in farmacia della sorella. Tra piccoli lavoretti e le ripetizioni Borsellino studia per il concorso in magistratura che supera nel 1963.

L'amore per la sua terra, per la giustizia gli danno quella spinta interiore che lo porta a diventare magistrato senza trascurare i doveri verso la sua famiglia. La professione di magistrato nella città di Palermo ha per lui un senso profondo.

Nel 1965 è uditore giudiziario presso il tribunale civile di Enna. Due anni più tardi ottiene il primo incarico direttivo: Pretore a Mazara del Vallo nel periodo successivo al terremoto.
Si sposa alla fine del 1968, e nel 1969 viene trasferito alla pretura di Monreale dove lavora in stretto contatto con il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile.

E' il 1975 quando Paolo Borsellino viene trasferito al tribunale di Palermo; a luglio entra all'Ufficio istruzione processi penali sotto la guida di Rocco Chinnici. Con il Capitano Basile lavora alla prima indagine sulla mafia: da questo momento comincia il suo grande impegno, senza sosta, per contrastare e sconfiggere l'organizzazione mafiosa.

Nel 1980 arriva l'arresto dei primi sei mafiosi. Nello stesso anno il capitano Basile viene ucciso in un agguato. Per la famiglia Borsellino arriva la prima scorta con le difficoltà che ne conseguono. Da questo momento il clima in casa Borsellino cambia: il giudice deve relazionarsi con i ragazzi della scorta che gli sono sempre a fianco e che cambieranno per sempre le sue abitudini e quelle della sua famiglia.

Borsellino, magistrato "di ottima intelligenza, di carattere serio e riservato, dignitoso e leale, dotato di particolare attitudine alle indagini istruttorie, definisce mediamente circa 400 procedimenti per anno" e negli anni si distingue "per l'impegno, lo zelo, la diligenza, che caratterizzano la sua opera". Per questi e altri lusinghieri giudizi a Borsellino viene conferita la nomina a magistrato d'appello con deliberazione in data 5 marzo 1980, dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Anche nei periodi successivi continua a svolgere le sue funzioni presso l'ufficio d'istruzione del Tribunale, dando ulteriore, luminosa dimostrazione delle sue qualità, veramente eccezionali, di magistrato e, particolarmente, di giudice inquirente.

Viene costituito un pool che comprende quattro magistrati. Falcone, Borsellino e Barrile lavorano uno a fianco all'altro, sotto la guida di Rocco Chinnici. E' nei giovani la forza su cui contare per cambiare la mentalità della gente e i magistrati lo sanno. Vogliono scuotere le coscienze e sentire intorno a sé la stima della gente. Sia Giovanni Falcone sia Paolo Borsellino hanno sempre cercato la gente. Borsellino comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, parla ai giovani nelle feste giovanili di piazza, alle tavole rotonde per spiegare e per sconfiggere una volta per sempre la cultura mafiosa.

Fino alla fine della sua vita Borsellino, nel tempo che gli rimane dopo il lavoro, cercherà di incontrare i giovani, di comunicargli questi nuovi sentimenti e di renderli protagonisti della lotta alla mafia.

Si chiede la promozione di pool di giudici inquirenti, coordinati tra loro ed in continuo contatto, il potenziamento della polizia giudiziaria, l'istituzione di nuove regole per la scelta dei giudici popolari e di controlli bancari per rintracciare i capitali mafiosi. I magistrati del pool pretendono l'intervento dello stato perché si rendono conto che il loro lavoro, da solo, non basta.

Chinnici scrive una lettera al presidente del tribunale di Palermo per sollecitare un encomio nei confronti di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, utile per eventuali incarichi direttivi futuri. L'encomio richiesto non arriverà.

Poi il dramma. Il 4 agosto 1983 viene ucciso il giudice Rocco Chinnici con un'autobomba. Borsellino è distrutto: dopo Basile anche Chinnici viene strappato alla vita. Il leader del pool, il punto di riferimento, viene a mancare.

A sostituire Chinnici arriva a Palermo il giudice Caponnetto e il pool, sempre più affiatato continua nell'incessante lavoro raggiungendo i primi risultati. Nel 1984 viene arrestato Vito Ciancimino e si pente Tommaso Buscetta: Borsellino sottolinea in ogni momento il ruolo fondamentale dei pentiti nelle indagini e nella preparazione dei processi.

Comincia la preparazione del Maxiprocesso e viene ucciso il commissario Beppe Montana. Ancora sangue, per fermare le persone più importanti nelle indagini sulla mafia e l'elenco dei morti è destinato ad aumentare. Il clima è terribile: Falcone e Borsellino vengono immediatamente trasferiti all'Asinara per concludere le memorie, predisporre gli atti senza correre ulteriori rischi.

All'inizio del maxiprocesso l'opinione pubblica inizia a criticare i magistrati, le scorte e il ruolo che si sono costruiti.
Conclusa la monumentale istruttoria del primo maxi-processo all'organizzazione criminale denominata "Cosa Nostra" insieme al collega Giovanni Falcone, unitamente al dott. Leonardo Guarnotta e al dott. Giuseppe Di Lello-Filinoli, Paolo Borsellino chiede il trasferimento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Marsala per ricoprire l'incarico di Procuratore Capo. Il CSM, con una decisione storica e non priva di strascichi polemici accoglie la relativa istanza sulla base dei soli meriti professionali e dell'esperienza acquisita da Paolo Borsellino negando per la prima volta validità assoluta al criterio dell'anzianità.

Borsellino vive in un appartamento nella caserma dei carabinieri per risparmiare gli uomini della scorta. In suo aiuto arriva Diego Cavaliero, magistrato di prima nomina, lavorano tanto e con passione. Borsellino è un esempio per il giovane Cavaliero. Teme che la conclusione del maxiprocesso attenui l'attenzione sulla lotta alla mafia, che il clima scemi e si torni alla normalità e per questo Borsellino cerca la presenza dello Stato, incita la società civile a continuare le mobilitazioni per tenere desta l'attenzione sulla mafia e frenare chi pensa di poter piano piano ritornare alla normalità.

Il clima comincia a cambiare: il fronte unico che aveva portato a grandi vittorie della magistratura siciliana e che aveva visto l'opinione pubblica avvicinarsi agli uomini in prima linea e stringersi intorno a loro, comincia a cedere.

Nel 1987 Caponnetto è costretto a lasciare la guida del pool a causa di motivi di salute. Tutti a Palermo attendono la nomina di Giovanni Falcone al posto di Caponnetto, anche Borsellino è ottimista. Il CSM non è dello stesso parere e si diffonde il terrore di veder distruggere il pool. Borsellino scende in campo e comincia una vera e propria lotta politica: parla ovunque e racconta cosa stia accadendo alla procura di Palermo; sui giornali, in televisione, nei convegni, continua a lanciare l'allarme. A causa delle sue dichiarazioni Borsellino rischia il provvedimento disciplinare. Solo il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga interviene in suo appoggio chiedendo di indagare sulle dichiarazioni del magistrato per accertare cosa stia accadendo nel palazzo di giustizia di Palermo.

Il 31 luglio il CSM convoca Borsellino che rinnova le accuse e le sue perplessità. Il 14 settembre il CSM si pronuncia: è Antonino Meli, per anzianità, a prendere il posto che tutti aspettavano per Giovanni Falcone. Paolo Borsellino viene riabilitato, torna a Marsala e riprende a lavorare. Nuovi magistrati arrivano a dargli una mano, giovani e, a volte di prima nomina. Il suo modo di fare, il suo carisma ed i suo impegno in prima linea è contagiaso; lo affiancano con lo stesso fervore e con lo stesso coraggio nelle indagini su fatti di mafia. I pentiti cominciano a parlare: prendono forma le indagini su connessioni tra mafia e politica. Paolo Borsellino è convinto che per sconfiggere la mafia i pentiti abbiano un ruolo fondamentale. E' tuttavia convinto che i giudici debbano essere attenti, controllare e ricontrollare ogni dichiarazione, ricercare i riscontri ed intervenire solo quando ogni fatto sia provato. L'opera è lunga e complicata ma i risultati non tarderanno ad arrivare.

Da questo momento gli attacchi a Borsellino diventano forti ed incessanti. Le indiscrezioni su Falcone e Borsellino sono ormai quotidiane; si parla di candidature alla Camera o alla carica di Sindaco. I due magistrati smentiscono ogni cosa.

Comincia intanto il dibattito sull'istituzione della Superprocura e su chi porre a capo del nuovo organismo. Falcone, intanto, va a Roma come direttore degli affari penali e preme per l'istituzione della Superprocura. Si sente la necessità di coinvolgere le più alte cariche dello stato nella lotta alla mafia. La magistratura da sola non può farcela, con Falcone a Roma si ha un appoggio in più: Borsellino decide di tornare a Palermo, lo seguono il sostituto Ingroia e il maresciallo Canale. Maturati i requisiti per essere dichiarato idoneo alle funzioni direttive superiori - sia requirenti che giudicanti - pur rimanendo applicato alla Procura della Repubblica di Marsala Paolo Borsellino chiede e ottiene di essere trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Procuratore Aggiunto. Grazie alle sue indiscusse capacità investigative, una volta insediatesi presso la Procura di Palermo alla fine del 1991, è delegato al coordinamento dell'attività dei Sostituti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia.

I Magistrati, con l'arrivo di Borsellino trovano nuova fiducia. A Borsellino vengono tolte le indagini sulla mafia di Palermo dal procuratore Giammanco, e gli vengono assegnate quelle di Agrigento e Trapani. Ricomincia a lavorare con l'impegno e la dedizione di sempre. Nuovi pentiti, nuove rivelazioni confermano il legame tra la mafia e la politica, riprendono gli attacchi al magistrato e lo sconforto ogni tanto si manifesta.

A Roma viene finalmente istituita la superprocura e vengono aperte le candidature; Falcone è il numero uno ma, anche questa volta, sa che non sarà facile. Borsellino lo sostiene a spada tratta sebbene non fosse d'accordo sulla sua partenza da Palermo. Il suo impegno aumenta quando viene resa nota la candidatura di Cordova. Borsellino esce allo scoperto, parla, dichiara, si muove: è di nuovo in prima linea. I due magistrati lottano uno a fianco all'altro, temono che la superprocura possa divenire un arma pericolosa se in possesso di magistrati che non conoscono la mafia siciliana.

Nel Maggio 1992 Giovanni Falcone raggiunge i numeri necessari per vincere l'elezione a superprocuratore. Borsellino e Falcone esultano, ma il giorno dopo nell'atto tristemente noto come la "strage di Capaci" Giovanni Falcone viene ucciso insieme alla moglie.

Paolo Borsellino soffre molto, il legame che ha con Falcone è speciale. Dalle prime indagini nel pool, alle serate insieme, alle battute per sdrammatizzare, ai momenti di lotta più dura quando insieme sembravano "intoccabili", al periodo forzato all'Asinara fino al distacco per Roma. Una vita speciale, quella dei due amici-magistrati, densa di passione e di amore per la propria terra. Due caratteri diversi, complementari tra loro, uno un po' più razionale l'altro più passionale, entrambi con un carisma, una forza d'animo ed uno spirito di abnegazione esemplari.

A Borsellino viene offerto di prendere il posto di Falcone nella candidatura alla superprocura, ma rifiuta. Resta a Palermo, nella procura dei veleni, per continuare la lotta alla mafia, diventando sempre più consapevole che qualcosa si è rotto e che il suo momento è vicino.

Vuole collaborare alle indagini sull'attentato di Capaci di competenza della procura di Caltanissetta. Le indagini proseguono, i pentiti aumentano e il giudice cerca di sentirne il più possibile. Arriva la volta dei pentiti Messina e Mutolo, ormai Cosa Nostra comincia ad avere sembianze conosciute. Spesso i pentiti hanno chiesto di parlare con Falcone o con Borsellino perché sapevano di potersi fidare, perché ne conoscevano le qualità morali e l'intuito investigativo. Continua a lottare per poter avere la delega per ascoltare il pentito Mutolo. Insiste e alla fine il 19 luglio 1992 alle 7 di mattina Giammanco gli comunica telefonicamente che finalmente avrà quella delega e potrà ascoltare Mutolo.

Lo stesso giorno Borsellino si reca a Villagrazia per rilassarsi. Si distende, va in barca con uno dei pochi amici rimasti. Dopo pranzo torna a Palermo per accompagnare la mamma dal medico: l'esplosione di un'autobomba sotto la casa di via D'Amelio strappa la vita al giudice Paolo Borsellino e agli uomini della sua scorta. E' il 19 luglio 1992.

Con il giudice perdono la vita gli agenti di scorta Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Cosina, Claudio Traina ed Emanuela Loi, prima donna poliziotto a essere uccisa in un attentato di mafia.

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LEGIONE ROMANA

Le origini della legione romana

La legione (legio da legere = scegliere, perché i soldati erano scelti nella leva militare) fu l’armata romana sin dai tempi di Romolo. Questi, secondo la tradizione, divise il popolo nelle tre tribù dei Tities, Ramnes e Luceres; ogni tribù doveva fornire 1.000 fanti, divisi in 10 centurie (gruppi di 100 uomini), e 100 cavalieri (1 centuria), per cui la primitiva legione romulea era costituita da 3.000 fanti e 300 cavalieri. I 3.000 fanti erano comandati da 3 tribuni milititum; i 300 cavalieri da 3 tribuni celerum; il termine celeres (veloci), con cui i più antichi cavalieri erano denominati, è rapportato alla celerità della loro azione.



Non tutti inizialmente potevano arruolarsi nell'esercito: fabbri, fucinatori, macellai... potevano entrare nell'esercito, non potevano invece uccellatori, pasticceri o uccellatori. Svolgere servizio nell'esercito romano era il sogno di tanti all'epoca: divenire ausiliari significa venire in possesso, una volta terminata l'attività militare, della cittadinanza romana per sè e per tutti i discendenti e, cosa molto ambita, poter diventare legionario. Fare il legionario non era certo facile: anzitutto la recluta imparava a marciare, poi si allenava a combattere contro grossi pali infissi a terra con sagome in legno riproducenti un gladio e poi direttamente con le altre reclute con dei cuscinetti di cuoio applicati sulla punta del gladio. Verso la fine dell'allenamento le reclute imparavano a disporsi in formazioni. Le armi principali dei Romani erano il pilum, lo scutum e il gladio. Il pilum era un giavellotto con una punta d'acciaio, essendo molto pesante la gittata era ridotta, ma era però capace di sfondare qualsiasi scudo o armatura; inoltre la punta era fissata con dei chiodini che all'impatto si spezzavano, cosicchè la punta rimaneva staccata dall'altra parte del giavellotto e rimanendo conficcata nello scudo ne rendeva impossibile l'uso, andando a finire nel corpo di un nemico rendeva difficile l'estrazione. Il pilum inoltre, essendo monouso, non poteva essere rilanciato dal nemico; ogni legionario ne aveva almeno due.

Legione serviana

Dopo la riforma di Servio Tullio, che divise i cittadini in 5 classi censitarie, basate sull'avere di ciascuno, per cui i più ricchi costituirono la prima classe e gli altri, proporzionalmente al censo, le altre quattro classi, la fanteria pesante dell'esercito romano venne formata dalle prime tre classi di censo. Le classi erano divise in un certo numero di centurie, di cui metà di iuniores (giovani), addetti alle armi, e metà di seniores (anziani), assegnati alla difesa della città. Gli iuniores delle prime tre classi dovevano procurarsi a proprie spese l'armamento di oplita offensivo e difensivo, comprendente, quali armi difensive, l'elmo di cuoio (galea), lo scudo rotondo di bronzo (clipeus), gli schinieri di bronzo (ocreae) e la corazza di bronzo (lorica); quali armi offensive, la lancia da urto (hasta) e la spada corta (gladius), atta a colpire di taglio e di punta. La prima classe doveva avere la completa armatura; la seconda e la terza classe, avendo, al posto del clipeus, lo scutum, un grande scudo rettangolare bombato di legno e cuoio con guarnizioni metalliche al centro e sui bordi, che proteggeva la persona dalle spalle ai piedi, facevano a meno della corazza, e la terza classe anche degli schinieri; la quarta classe non aveva armi di difesa, ma solo di offesa; la quinta classe aveva unicamente fionde (fundae) e proiettili di pietra (lapides missiles). Le centurie degli equites (cavalieri) furono portate a 18, con un effettivo di 1.800 cavalieri. Con Servio Tullio venne introdotta la tattica oplitica, in base alla quale gli opliti, aventi la pesante armatura di bronzo, combattevano in schieramento serrato, falangitico, gli scudi a contatto l'uno con l'altro.

Legione consolare - Ordinamento per manipoli

La creazione del consolato, all'inizio della repubblica, impose lo sdoppiamento della legione, per assegnare a ciascuno dei due consoli un'intera armata. Dalla legione unica dell'ordinamento serviano si passò alle due legioni consolari, non reclutando un maggior numero di uomini, ma raddoppiando i quadri, per cui ogni legione consolare mantenne 60 centurie di fanteria pesante, ma gli effettivi scesero a 3.000 soldati per legione. L'esercito romano composto di due legioni contava quindi 120 centurie e 6.000 fanti di linea. E questo perché la centuria della legione consolare non era più formata da 100 uomini, ma da un numero inferiore. In questo periodo (IV Sec. a.C.) venne abbandonata la lenta e poco manovrabile formazione falangitica del periodo precedente. Le 60 centurie della legione si rivelarono tatticamente troppo deboli, per cui furono unite a due a due a costituire i manipoli, pur conservando il nome di centuria e rimanendo unità amministrative. La legione ebbe 30 manipoli, distinti in 10 manipoli di hastati, 10 di principes, 10 di triarii; le centurie degli hastati e dei princeps comprendevano ciascuna 60 soldati (un manipolo 120), mentre le centurie dei triarii comprendevano 30 soldati (un manipolo 60). Il numero dei cavalieri fu fissato a 300, divisi in 10 squadroni ciascuno di 30 uomini, suddivisi a loro volta in 3 decurie di 10 uomini ciascuna. Non fu più il censo, ma l'età ad assegnare ai soldati il rispettivo posto: infatti i più giovani formavano la prima linea di hastati, gli uomini fatti la seconda linea di principes, i più anziani la terza linea di triarii. Per quanto riguarda l’armamento, gli hastati, i principes ed i triarii avevano in comune un elmo di bronzo con pennacchio (crista) molto alto e diritto, formato da penne rosse o nere (spesso di allodola) o da una coda equina, la corazza a maglie di ferro o un pettorale di bronzo fissato ad un corsetto di cuoio, lo scutum al posto del clipeus e gli schinieri, che coprivano le gambe dal ginocchio in giù. Come armi offensive avevano in comune il gladius; oltre questo, gli hastati ed i principes avevano il pilum ed i triarii l'hasta. Ma dovette esserci senz'altro un tempo in cui gli hastati avevano l'asta, da cui deriva il loro nome; i triarii, detti anche pilani avevano il pilum; e i principes, cioè “i primi” erano schierati in prima linea. L'armamento dei triarii può essere ricondotto a quello della fanteria pesante della falange oplitica.

Probabilmente la gittata più corta del pilum in quanto giavellotto "pesante" era più adatta ai primi ranghi, così l'arma che forse i triarii usavano in precedenza è passata alle due file più avanti lasciando a questi solo il nominativo.

Gli armati alla leggera, i velites, portavano un piccolo scudo rotondo di legno (parma) ed un elmo di cuoio; e come armi offensive leggeri giavellotti (hastae velitares).

Inizialmente sulla terza linea erano disposti assieme ai triarii anche i rorarii e gli accensi, i primi giovani ed inesperti, gli altri poco affidabili. Questi altri due ordini rappresentavano un retaggio della quarta e della quinta fila della ormai abbandonata falange oplitica. Triarii, rorarii ed accensi erano organizzati in 3 manipoli di 180 uomini l'uno. Ciascun manipolo era chiamato ordo.

Furio Camillo (il salvatore di Roma) secondo la tradizione, ma è più logico pensare che queste siano state delle modifiche fatte gradualmente col tempo, sostituì gli elmi di bronzo, troppo deboli per affrontare le lunghe spade dei barbari, con degli elmi di ferro molto levigati per deviare i colpi inferti su di essi. Sempre nel III secolo a.C. Roma dovette fronteggiare Pirro, re dell'Epiro ed abile stratega che mise notevolmente in difficoltà i Romani ancora dediti a volgere ai propri voleri la penisola italiaca. Con Pirro i Romani conobbero per la prima volta gli elefanti, destinati a farsi rivedere con Annibale, considerati erroneamente "buoi della Apulia". Pirro vinse numerose volte, sicuramente per abilità tattica visto che a Maleventum (l'odierna Benevento) perse così tanti uomini che la sua vittoria sembrò più una sconfitta, di qui il detto "Una vittoria di Pirro" per indicare una vittoria che sembra più una disfatta. Curioso è l'espediente che gli ingegnosi Romani adottarono contro gli elefanti: vista la facilità con la quale i pachidermi si spaventavano, essi cospargevano dei maiali di pece e, una volta dato fuoco al povero animale, lo dirigevano verso gli elefanti; inutile dire che funzionava...e bene.

Comandi

Il supremo potere militare, l'imperium militiae, era de tenuto dai consoli, dai pretori e dal dittatore, quest’ultimo con un comandante in seconda, il magister equitum. In età imperiale sarà il principe ad avere il comando supremo, esercitato per mezzo di delegati, i legati Augusti, di rango e grado diverso in base all'importanza del dislocamento della legione. Fra gli ufficiali la legione annoverava:

-        6 tribuni militum, di cui uno di rango senatorio, detto laticlavius, dall'ampia striscia di porpora (clavus) che orlava la sua tunica, e cinque di rango equestre, detti angusticlavi. Essi in coppia comandavano la legione per due mesi, tenendo il comando un giorno per uno o un mese per uno.

Il fatto dell'alternarsi del comando si rivelerà, assieme al genio tattico d'Annibale, la causa più importante della disfatta romana a Canne: gli intenti dei due consoli erano opposti riguardo prendere l'iniziativa o meno: Emilio non voleva scendere in campo contro Annibale, ma a questo bastò far assalire dalla propria cavalleria numidica i Romani che attingevano l'acqua sulla riva opposta del fiume, per far ordinare a Varrone, il giorno dopo, di schierare tutte le legioni in campo.

-        legati: ufficiali aggiunti, di solito nominati dal Senato in seguito alle proposte del comandante, che affiancavano ed assistevano.

-        60 centuriones: comandanti delle centurie, nominati dai tribuni e provenienti dalle truppe, erano ufficiali subalterni (duces minores). Ogni manipolo ne contava due: il centurione che comandava la centuria di destra, centurio prior, comandava tutto il manipolo e quindi aveva ai suoi ordini il centurione della centuria di sinistra, centurio posterior. Gli hastati erano agli ordini di 10 centuriones priores e 10 centuriones posteriores, e così i principes ed i triarii. Il grado più elevato fra i centuriones priores era tenuto dal centurione del primo manipolo dei triarii, detto primus pilus.

-        60 optiones: comandanti in seconda della centuria.

-        30 decuriones: in ogni turma dì 30 cavalieri c'erano 3 decurioni, dei quali il più anziano comandava la turma.

-        12 praefecti alae: alti ufficiali romani, 6 per ognuna delle due alae (ala dextra, ala sinistra), in cui erano aggregati i contingenti degli alleati, inquadrati in cohortes di fanteria e in turmae di cavalleria.

Schieramento dei manipoli

La legione manipolare si schierava, in profondità, su tre linee, distanziate fra loro di circa 40 m; su ciascuna linea si disponevano i manipoli e precisamente sulla prima linea i 10 manipoli degli hastati, sulla seconda linea i 10 manipoli dei principes e sulla terza linea i 10 manipoli dei triarii. I manipoli, che presentavano in genere 20 soldati di fronte e 6 o 3 in profondità, si schieravano a scacchiera, gli uomini si disponevano a distanza di un metro l'uno dall'altro per avere libertà di movimento ed evitare di ferirsi accidentalmente in battaglia. Fra i manipoli degli hastati venivano lasciati degli intervalli, che corrispondevano alla fronte dei manipoli stessi, circa 18 m; i manipoli dei principes non erano collocati dietro a quelli degli hastati, ma dietro ai loro intervalli, ed i manipoli dei triarii erano collocati dietro agli intervalli dei principes. Così che, nel caso gli hastati, dopo il lancio preliminare del pilum, avessero la peggio nei duelli corpo a corpo con il nemico, ripiegavano, passando attraverso gli intervalli dei principes, mentre questi avanzavano attraverso gli intervalli lasciati fra i manipoli degli hastati. I triarii, i più esperti e valorosi, inizialmente inginocchiati, avanzavano all'assalto solo quando anche i principes non erano in grado di decidere le sorti della battaglia, onde il modo di dire: "res redit ad triarios" (la battaglia è ridotta ai triari) per indicare una situazione gravissima. Allorché i triarii avanzavano sul davanti, gli hastati ed i principes si ritiravano alle loro spalle; la carica improvvisa di truppe fresche armate efficacemente come i triarii causava notevole scompiglio nei ranghi nemici. Questa disposizione a scacchiera poteva però essere modificata, qualora le circostanze lo richiedessero. La cavalleria era schierata in prima linea, ai due lati dei manipoli degli hastati; gli armati alla leggera combattevano sparsi e servivano a molestare il nemico prima che cominciasse il combattimento.

Riforma di Gaio Mario. Ordinamento per coorti

L'estendersi dei fronti di guerra ed il numero sempre maggiore delle popolazioni nemiche resero necessario porre in campo sempre più legioni. Dalle 2 legioni che costituivano di regola l'esercito consolare romano, si era passati a 4 legioni (2 per ogni console) durante la seconda guerra sannitica (fine IV sec. a.C.), che rimase il numero usuale dell'esercito romano, anche se eccezionalmente, come per esempio durante la guerra annibalica (fine III sec. a.C.), furono arruolate fino a 23 legioni. I soldati continuavano ad essere reclutati in base al censo, anche se il reddito minimo veniva sempre più abbassato onde permettere ai meno abbienti di prestare servizio militare. Fu Gaio Mario (fine II sec. a.C.) ad abolire il vecchio sistema del reclutamento per censo e ad arruolare tutti i volontari in possesso della cittadinanza romana e di qualità fisiche, anche appartenenti alle popolazioni italiche. I soldati e l'esercito divennero di mestiere, devoti ai loro comandanti. La tradizione attribuisce a Gaio Mario anche la creazione di un'unità tattica più serrata del manipolo, la cohors, coorte, di 600 uomini, formata dall'unione di 3 manipoli, uno di hastati, uno di principes, uno di triarii, portati ciascuno a 200 uomini. La legione venne divisa pertanto in 10 coorti, numerate da I a X, e gli effettivi salirono a 6.000. Tutti gli effettivi della legione coortale erano dì fanteria pesante. I veliti infatti furono aboliti e le truppe leggere furono costituite dagli ausiliari. Venne meno la distinzione di età e di armamento fra hastati, principes e triarii, che ebbero tutti il pilum ed il gladius. Successivamente, la forza della legione coortale si stabilizzò sui 5.000 armati. Lo schieramento normale delle coorti era su tre linee, a scacchiera, simile a quello dei manipoli, con gli intervalli fra coorte e coorte, attraverso cui le unità tattiche della seconda e terza linea potevano avanzare e porsi in prima linea, qualora fosse necessario. Giulio Cesare modificò lo schieramento cambiando di posto le coorti dell’ultima linea e disponendole là dove ce ne fosse bisogno (vedi battaglia di Farsalo). La divisione delle coorti rimase invariata per tutto l’impero; soltanto la prima coorte di ogni legione ebbe un numero doppio d’uomini, 1.000, e fu detta pertanto cohors millenaria, mentre le altre nove coorti, di 500 uomini, erano dette cohortes quingenarie. Lo schieramento continuò a essere quello a scacchiera, ma le coorti erano disposte solo su due linee: alla destra della prima linea la I coorte e immediatamente dietro a questa la IV. Al tempo di Augusto vi erano 25 legioni, stanziate fuori Italia e nelle province, dove lo richiedevano la difesa dei confini o la sicurezza interna.

Modifiche successive alla legione

Il cambiamento più importante delle legioni fu senz'altro l'arruolare sempre più cavalieri all'interno di questa: poche persone volevano fare il soldato, molti imperatori infatti obbligarono i grandi proprietari terrieri ad arruolare parte degli schiavi dediti a lavorare i campi e le reclute venivano marchiate a fuoco per evitare diserzioni; erano lontani i tempi in cui la più grande aspirazione fra i cittadini era combattere per Roma! La cavalleria assunse un ruolo sempre più determinante sia perchè i legionari, essendo per lo più barbari, non dimostravano più quell'abilità nel combattere e quella disciplina di un tempo, sia perchè la cavalleria era molto più mobile e, inoltre, gli eserciti barbari del IV-V secolo d.C. erano dotati di abilissimi guerrieri a cavallo. Altra modifica molto importante all'interno dell'esercito romano fu l'arruolamento di speciali legionari addestrati come schermagliatori (dotati quindi di giavellotti ed armatura leggera), che erano chiamati lanciarii (IV secolo d.c.).


 

NOME DELLA LEGIONE

CREAZIONE

CAMPAGNE

I - IV

Erano le vecchie legioni consolari, arruolate occasionalmente e sciolte quando non ce n'era più bisogno

-

I Augusta e I Germanica

Creata da Cesare

Partecipò alla guerra civile del 69 d.C. e fu sciolta nel 70 d.C. per una sconfitta con dei ribelli

IX Hispanica

Creata nel 59 A.c. o prima fu ricostituita da Augusto nel 44 a.C.

Partecipò all'invasione di Britannia nel 43 e subì molte perdite durante la rivolta capeggiata da Boudicca. Sopravvisse fino al 120 d.C.

X Gemina

-

-

III Cyrenaica

-

Partecipò alla guerra contro i Parti di Traiano 115-117 d.C.

VI Victrix

-

Seguì Cesare in Egitto e Augusto ad Azio

VII Macedonica

-

Rimase fedele all'imperatore Claudio nella rivolta di Scribonianus, governatore della Dalmatia. Si unì a Vespasiano durante la guerra civile del 69 d.C.

XII Fulminata

"Lanciatrice di fulmini" Creata da Cesare nel 58 a.C. rifondata nel 44 o nel 43 a.C.

Combatté a fianco di Antonio, in Armenia e in Giudea. Prese parte alla non riuscita invasione dell'Armenia nel 62 d.C. e fu disonorata dalla sconfitta coi Parti a Rhandeia. In seguito prese parte alla guerra giudaica e perse temporaneamente l'aquila nella ritirata del 66 d.C. Combatté a fianco di Marco Aurelio nel 170 d.C. contro i Quadi

VIII Augusta

Creata da Cesare nel 59 a.C. o prima

Prese parte alla guerra in Gallia e nella guerra civile che seguì. Sciolta nel 46 a.C. fu ricostituita da Augusto nel 44 a.C. Combatté valorosamente sotto il comando d'Augusto.

XI

Creata forse da cesare nel 58 a.C. fu sciolta nel 46 a.C.

Rimase fedele a Claudio durante la rivolta del governatore di Dalmazia (42 d.C.). Fu dalla parte di Vespasiano nella guerra civile del 69 a.C. Aiutò a sopprimere la rivolta Iulius Civilis nel 70 d.C.

XII

Creata da Cesare nel 58 a.C. fu sciolta nel 46 a.C.

-

XIII (dopo Gemina Pia Fidelis)

Creata da Cesare nel 57 a.C. fu sciolta nel 46 a.C., fu ricostituita da Augusto verso il 40 a.C.

Prese parte alla seconda guerra dacica di Traiano

XIV (dopo Gemina Martia Victrix)

Creata da Cesare nel 57 a.C. fu sciolta fra il 46 e il 25 a.C.

Prese parte allo sbarco in Britannia del 43 a.C. e alla soppressione della rivolta di Boudicca nel 60-61 a.C. Partecipò alla campagna contro Iulius Civilis nel 70 a.C. fu dalla parte di Saturnino durante la rivolta dell'89 d.C. Un distaccamento di questa seguì Traiano durante le due guerre daciche.

VI Ferrata Fidelis

Creata da Cesare nel 52 a.C. nella Gallia Cisalpina

Fu agli ordini d'Antonio nel 43 a.C. e dopo di Augusto come parte dell'armata stazionata in Siria. Partecipò alla guerra civile del 69 d.C. a fianco di Vespasiano. Supportò l'imperatore Settimio Severo contro Pescennius Niger

V Alaudae

"L'allodola" Creata da Cesare nel 52 a.C. e formata popolazioni della Gallia Transalpina. (il soprannome deriva dalle penne che i romani utilizzavano per decorare gli elmi)

Prese parte alla guerra civile del 69 d.C. a fianco di Vitellio. Fu ricostituita da Marc'Antonio nel 44 a.C. Perse la sua aquila nel 17 a.C. fu sciolta da Vespasiano o da Domiziano

III Gallica

Creata da Cesare nel 48-42 a.C.

Partecipò alla guerra gallica e a quella civile del 49 a.C. e del 69 d.C. a fianco di Vespasiano. Fu ricostituita da Severo Alessandro

V Macedonica

Creata da Cesare nel 43 a.C. o da Augusto nel 41 a.C. o nel 40 a.C.

Si distinse in Macedonia. Sotto Vespasiano combatté i ribelli giudei. Prese parte alle campagne contro i Parti di L Vero (162-166 d.C.)

X Equestris (dopo Gemina)

Creata da Cesare nel 59 a.C. (la usa favorita)

Sciolta dopo che si ribellò ad Augusto (ancora non imperatore), fu ricostituita nel 44 a.C. da Augusto per combattere Antonio nella guerra civile. Rimase fedele a Domiziano durante la rivolta di Saturnino nell'89 d.C.

X Fretensis

Creata da Augusto nel 41 or 40 a.C.

Chiamata così dopo la battaglia navale tra Augusto e Sesto Pompeo a Frectum Siculum (lo stretto di Messina), prese parte alla guerra giudaica.

IV Macedonica

Creata da Cesare nel 48 a.C.

Si distinse in Macedonia. Prese parte alla guerra civile del 69 d.C.. Sciolta da Vespasiano, fu sostituita dalla Legio IV Flavia Firma

XV Apollinaris

Creata da Augusto nel 41 or 40 a.C. Prese il nome dal dio Apollo

Combattè nell rivolta giudaica del 66-70 d.C. Un distaccamento prese parte alle guerre daciche di Traiano nel 101-102 d.C. e nel 105-106 d.C..

XX Valeria Victrix

Creata da Augusto nel 40 a.C.

Rimase fedele a Domiziano nella rivolta di L. Antonio Saturnino nell'89 d.C. "Coraggiosa e vincitrice" nella rivolta di Boudicca.

XVI Gallica

Creata da Augusto nel 41 or 40 a.C.

Parte della legione partecipò alla rivolta con Vitellio nel 69 d.C. Nel 69 d.C. la legione si arrese al ribelle Iulius Civilis. Dopo la legione fu sciolta da Vespasiano e ricostituita come Legio XVI Flavia Firma

XXI Rapax

"Crudele" Creata da Augusto nel 41 or 40 a.C. forse dopo Azio

A proposito di ...: Yukio Mishima

dedicato ad Alessandro Vicinanza perchè ci ha indicato "la via del samurai".



YUKIO MISHIMA

"Hana wa sakura-gi, hito wa bushi" 

Il fiore per eccellenza è il ciliegio, 
l'uomo per eccellenza è il guerriero. 

Pagina dedicata alla breve storia del grande romanziere

nipponico Yukio MISHIMA, l'ultimo dei Samurai, a cura del 
Prof. Dott. Dr. Luca SCOTTO DI TELLA 
Presidente Internazionale - Magnifico Rettore della A.S.A.M. UNIVERSITY. 

 

Un proverbio giapponese ammonisce che "Il valore della vita, nei confronti del proprio dovere, ha il peso di una piuma". 
Esso è estrapolato dal "Mutsuwaki", una cronaca di guerra di un autore sconosciuto (1051-1062) che così recita: 

"Adesso abbandono la mia vita, per la salvezza del mio Signore. 
La mia vita è leggera come la piuma di una gru. Preferisco morire affrontando il nemico, piuttosto di vivere voltandogli le spalle". 

Pilota Kamikaze sull'attenti 

L'ultimo dei Samurai, Yukio MISHIMA, grande ammiratore dei piloti Kamikaze. 

Il Corpo dei Kamikaze ha rappresentato fino al giorno d'oggi un fulgido esempio di sprezzo della morte, l'incarnazione di tutti i più alti valori morali dei Samurai, soprattutto per la Destra giapponese quella che fomentava ed auspicava un ritorno alle tradizioni del paese, sempre più imbarbarito dalla occidentalizzazione. Nel 1938 venne decretata la legge per la mobilitazione nazionale e due anni dopo, il 27 Settembre, fu concluso tra il Giappone, la Germania e l'Italia il Patto Militare tripartito detto "Ro.Ber.to." (Roma-Berlino-Tokyo). Tutte le fazioni di destra si erano unite ed il paese si trovò come d'incanto avvolto in fermenti nazionalistici, nel culto del Divino Imperatore, nell'ultrapatriottismo e nel militarismo. Non soltanto il popolo giapponese, con la sua educazione confuciana ed il suo culto di antica data per qualsivoglia modello di guerriero, non tentò nessuna seria resistenza al nuovo sistema, ma si mostrò anch'esso completamente ebbro, per così dire, di questa sorta d'ideologico sake vecchio e tuttavia nuovo. Le organizzazioni politiche di destra hanno usato, fin dai tempi bellici, i piloti Kamikaze come simbolo di un Giappone militaristico, colonialista ed estremamente nazionalistico, ultra-nazionalistico, ed è forse anche per tale ragione, che la maggior parte dei giapponesi di oggi , vedono il soggetto con ignoranza e come un falso stereotipo, commentandolo in genere con toni negativi e di scarsa simpatia. 
Innanzitutto, il fascismo giapponese non è per niente eguale al fascismo italiano (1922-1944) o al nazismo (1933-1945) tedesco, ma è soltanto simile, in quanto assolutamente peculiare per via del differente "modus cogitandi" nipponico. Per designare questo periodo impregnato di totalitarismo si preferisce infatti generalmente usare i termini "Nihon-shugi"(Giapponismo, termine molto vago utilizzato da forti nazionalisti per enfatizzare l'unicità e superiorità di tutto che è politica, cultura e società giapponese) e "Tenno-Sei"(Sistema Imperiale. Damolti storici giapponesi definito "Fascismo Tenno-sei" ovvero "fascismo militarista") . Inoltre , come disse lo studioso italiano F. MAZZEI: "la nascita del fascismo giapponese appare un fatto più naturale o per meglio dire "meno patologico" che non in Italia e in Germania". Altra differenza. Salvo rare eccezioni, come quella offertaci da Gobbels, Dottore in Filosofia presso l'Università di Heidelberg, i Dirigenti delle "S.S." o della "Gestapo" non vantavano che al massimo una istruzione medio-superiore, ove i colleghi nipponici avevano tutti una istruzione formale "top" conseguita in università imperiali e/o Accademie Militari Imperiali. Inoltre, se i Leaders nazisti erano dati da una collezione di "freaks", ivi compresi drogati, alcolizzati e sessualmente pervertiti (Hermann GOERING, Heinrich HIMMLER, Robert LEY) i capi giapponesi erano "drogati" unicamente di devozione al Loro Imperatore/Dio. Per i piloti Kamikaze si addice perfettamente il motto inscritto sulla lapide lasciata in ricorso della famosa (e per Noi italiani sfortunata) battaglia africana di El Alamein (Egitto): "Mancò la fortuna, non il valore" ma questo non conta che in positivo considerato il culto per la bellezza della sconfitta. La morte dell'Imperatore Tai-Sho (l'Imperatore Yoshihito, regnante dal 1912 al 1926) può essere il momento in cui il Giappone ha incominciato a diventare lo stato fascista che era durante la guerra del Pacifico. Anche se l'Esercito Imperiale era attivo fin dal periodo di Meiji (1867-1912), in guerre come la cino-giapponese (1894-1895) e la russa-giapponese (1904-1905), esso divenne estremamente attivo quando il Principe della Corona HIROHITO divenne l'Imperatore SHOWA. Già dalla primavera del 1931, gli estremisti in divisa strombazzavano: "Le ossa dei Nostri soldati delle guerre sino-nipponica e russo-nipponica, giacciono in Manciuria ed in Mongolia, terre vitali per il Giappone!". I colpi di stato divennero frequenti e molte figure politiche di spicco vennero assassinate. Durante il Regno dell'Imperatore SHOWA, l'Esercito divenne la vera autorità. Secondo le testimonianze di coloro i quali hanno vissuto durante il primo periodo di Showa (1926-1945), la presenza dell'Imperatore era come quella di un Dio e la Sua fu una figura più religiosa che politica. In molte poesie "Haiku" scritte dai piloti Kamikaze, l'Imperatore è nominato alla prima riga. Fra i maggiori ammiratori dell'epopea dei Samurai e degli ideali successori di questi, i piloti Kamikaze, abbiamo il romanziere di fama internazionale Yukio MISHIMA. 

Bushido in Giapponese 
I princìpi del Bushido (Bushi-Do. Letteralmente "La Via del Guerriero". E' il Codice d'Onore dei Samurai e dei guerrieri giapponesi in genere, redatto da NITOBE INAZO , per la prima volta tradotto integralmente in lingua italiana da B. BALBI nel 1940, concernente l'orgoglio dell'agire rettamente e nobilmente. Tratta di una deontologia marziale fondata sulla morte), sono schematizzati nel libro "Hagakure". 
Immediatamente dopo la fine del conflitto mondiale, questo libro cessò d'essere un "best-seller". 
E' nel 1967 che lo scrittore fascista MISHIMA gli accordò nuovamente tutta la propria attenzione nell'opera intitolata "Il Giappone moderno e l'Etica del Samurai, la Via dell'Hagakure". 
Negli anni '60 MISHIMA divenne un attivissimo partigiano del potere Imperiale anteriore al periodo agosto 1945. 
Fervente adoratore della tradizione, con l'ardente desiderio di un Impero purificato dalle nefaste e nefande influenze occidentali, ha venerato la figura dell'Imperatore HIROHITO come quella di un padre ed avendo fatto Hara-Kiri nel 1970, in nome dell'Imperatore ed in difesa delle auguste tradizioni nipponiche, si è trovato ad essere a Sua volta venerato dai tradizionalisti, come un "degno figlio del degno Giappone". 


Il Dott. Yukio MISHIMA J.D. si chiamava in realtà Hiraoka KIMITAKE. Analizziamo il Suo pseudonimo. Yukio, il nome, è composto da tre ideogrammi : 

"Yu" che significa "alzarsi, levarsi, sorgere", "ki" che significa "razionalmente, felicemente", ed "o" che è la desinenza maschile. 

MISHIMA, il cognome, significa "le quattro isole" (Kyushu, Hokkaido, Honshu, Shikoku), ovvero il Giappone. Yukio MISHIMA significa quindi "l'uomo del Giappone sorto in felicità". MISHIMA ricevette questo pseudonimo dai Suoi Professori, che vollero pubblicarGli il romanzo "Hanazakari no mori" (Foresta in fiore , 1941) senza urtare i progetti dell'influente padre. 

Questo genio, come i Suoi colleghi, si consumò e morì presto, nel pieno vigore giovanile, gabbando in un certo senso il destino che vuole anche i vigorosi, virili guerrieri, destinati alla decadenza della senilità. MISHIMA seguì l'antico detto di Zarathustra/Zoroastro e cioè : "Muori in tempo". 

Nacque mercoledì 14 gennaio 1925 a Tokyo da una nobile famiglia che vantava fra i Suoi avi appartenenti alle due nobiltà, feudale guerriera (Buke) e di corte (Kuge). 

Tra l'altro Suo nonno era stato Governatore dell'Hokkaido, Suo padre Direttore Generale di un Ministero, Suo fratello fa tuttora parte del Gabinetto del Primo Ministro. Dopo aver studiato alle scuole per nobili ("Gakushuin"/Peer School, la "Scuola dei Pari"), coronò i Suoi studi con una Laurea in Legge conseguita all'Istituto di Scienze Giuridiche Germaniche dell'Università di Tokyo. 

Capito che ebbe il Suo vero talento (lavorò per sei mesi presso il Ministero delle Finanze), si dedicò completamente e con successo alla scrittura. 

Nel 1954 divenne uno dei maggiori scrittori del Giappone e quattro anni dopo ricevette il prestigioso premio letterario "Yomiuri". Piccola parentesi esoterica : tale carriera folgorante è normale per le scienze astrologiche. Infatti, essendo nato MISHIMA di mercoledì, si trovava sotto gli influssi di Mercurio (Hermes/Ermete), protettore della sapienza, messaggero degli dei, mediatore fra questi e gli uomini, etc. Frutto dei Suoi influssi sono l'originalità, la genialità, la mentalità scientifica, la logica, la poliedricità, l'arte oratoria, la lealtà d'animo, le doti artistiche e, "dulcis in fundo" la letteratura. Nel 1959 sposò la figlia di un pittore e l'anno dopo divenne padre. 
Nel 1965 realizzò ed interpretò un cortometraggio (dal titolo "Riti d'amore e di morte", premiato al Festival di Tour, nel gennaio del 1966) sul tema del Suo racconto "Yukoku" (letteralmente "Deplorevole paese", cioè il paese che ha abbandonato la tradizione dell'onore militare), da noi tradotto come "Patriottismo", scritto nell'estate del 1960 (in inglese porta il titolo "Death in the middle summer"), ove è descritto minuziosamente il Seppuku del Tenente AOSHIMA alla fine dell'ammutinamento dei giovani ufficiali nel febbraio del 1936. 

 

Nella primavera del 1967, a 42 anni, ottenne il permesso speciale di divenire Allievo Ufficiale (questo perché in Giappone non esiste un 

servizio militare obbligatorio). Circa un anno dopo, fu promosso comandante di plotone. Nell'autunno dello stesso anno, battezzò la sua associazione paramilitare "Società degli Scudi" (Tate no Kai). 

Questo gruppo militarista di destra era formato, MISHIMA a parte, che rappresentava il Fondatore, guida carismatica, spirituale e temporale, 95 iscritti, reclutati singolarmente da MISHIMA fra studenti universitari con servizio militare di leva già prestato e particolarmente esperti nel Bu-Jitsu e cioè nelle tanto famose arti marziali nipponiche. 

 

Lo scrittore, dapprima gracilissimo poi culturista, Maestro di Karate-Do ed anche cintura nera 5° Dan di Ken-Do nel 1968, considerava la "Tate no Kai" come "il più piccolo esercito spirituale del mondo, composto da giovani che non posseggono altro che muscoli temprati", in pratica come un esercito "ad personam". 

Scopo di questo sodalizio, composto di ragazzi sui 20 anni (un pò la media dei piloti suicidi), era di "proteggere l'Imperatore e restaurare la Sua trascendenza con l'esempio della fede, "quid" che rende felici e spinge avanti, sempre". 

 

I 95 si riunirono, come i famosi e leali 47 ronin (ed i malavitosi giapponesi, gli "yakuza") mediante un taglio in un dito, riempendo col sangue comune un recipiente, dal quale ognuno bevve due - tre gocce, simbolo del comune impegno verso il sacrificio. Questo "gruppuscolo" non era considerato pericoloso , era al contrario molto coreografico ; uniformi di uno sgargiante rosso, con un taglio molto elegante, spade samuraiche antiche (Katana, Wakizashi, etc.) e via dicendo. 

La sera prima portò la famiglia in un ristorante del lussuosissimo quartiere della "Ginza" (l'antica zecca della città). Era il pranzo di commiato alla vita, ma nessuno poteva prevederlo, poiché dimostrò ottimi umore ed appetito. 


Il giorno fatale per MISHIMA arrivò il 26 novembre del 1970. 

 

Si era dato appuntamento con il Generale MASHITA , Capo delle Forze Armate dell'Oriente, nel Suo ufficio sito nel Quartier Generale delle Forze di Autodifesa, Base di Ichigaya , nel centro di Tokyo. Dopo che fu entrato, senza problemi, con una scorta d'onore di quattro ufficiali "Tate no Kai", armati come il Loro Comandante di sole armi bianche tradizionali, affilate come falci di morte, s'incontrò col Generale. Questi accennò alla preziosa spada che pendeva al fianco dello scrittore e chiese se era vera. Alla risposta affermativa, chiese Loro come potessero circolare tranquillamente ed impunemente con tali armi. I quattro ufficiali della scorta d'onore risposero che erano qualificate come "oggetti d'arte", essendo molto antiche e preziose. Detto ciò, invitarono il moderno Shogun ad ammirare la spada maggiormente preziosa , seicentesca e firmata da un famoso armaiolo, quella di MISHIMA. Il Generale si distrasse, preso com'era dalla bellezza di quelle armi tradizionali, ed i quattro lo immobilizzarono, legandolo ad una sedia e puntandogli un pugnale alla gola : erano passati soltanto 10 minuti. Fatto ciò, i quattro, MORITA Hissho Sama, CHIBI-KOBA Sama, OGAWA Sama e FURU-KOGA Sama, dopo aver respinto senza ferirli, tenendoli a distanza, dei subalterni del Generale accorsi in Suo ausilio, si barricarono nell'ufficio. Il Generale, prigioniero indifeso, forse timoroso per la propria incolumità, chiese cosa volevano da lui, e MISHIMA gli rispose che non desiderava nulla da lui, bensì dai suoi soldati, più di 1000, ai quali voleva parlare. 

 

Ai graduati del Generale respinti (che avevano tentato invano una sortita, costata loro cara, 7 uomini feriti a colpi di sciabola, da MISHIMA e MORITA) , fu detto di far radunare gli uomini nella piazza d'armi ; in caso contrario il Generale sarebbe stato ucciso. 

Il Leader della "Tate-no-Kai" comunicò anche al prigioniero che dopo il discorso avrebbe fatto Seppuku. Pronunciato tutto ciò, MISHIMA passò sul balcone, dove cominciò a parlare. Più di 1000 uomini si riunirono ad ascoltare i Suoi discorsi patriottici. Parlò tra l'altro della necessità di riformare la Costituzione dettata (o meglio imposta per non usare ipocriti eufemismi) dagli americani , la quale vieta al Giappone di avere un proprio Esercito (gli Stati Uniti d'America permisero solo nel 1950 la costituzione di una larva di Forze Armate di Autodifesa con 75.000 uomini di organico) , predicò profeticamente un ritorno alle tradizioni, le quali erano state soppresse dal mito del "Nuovo Giappone dei transistors", il Giappone completamente prostituito al "modus vivendi" dell'occidente statunitense. 

 

Aggiunse che con l'attuale dipendenza dagli Stati Uniti i soldati giapponesi finiranno per essere dei mercenari al servizio degli "Yankee" e concluse, deluso e schernito dai più, dicendo : "Muoio per l'onore dell'Esercito, muoio per amore della Giustizia!". Rientrato nell'ufficio, si tolse la giacca e fece hara-kiri gridando : 
"Viva l'Imperatore, Viva il Giappone !", tagliando per 10 centimetri e spingendo la lama 5 centimetri in profondità, quindi, un Suo condiscepolo, Gli fece da "secondo" (Kaishaku-nin), mozzandoGli la testa. 
Era lo scrittore più famoso del Giappone, candidato al Premio Nobel per la Letteratura. Il Primo Ministro, SATO dichiarò : "Credo che sia stato colto da un improvviso accesso di follia". Viva l'Imperatore e Viva il Giappone Egli disse, come l'antica nenia patriottica che dice : "Se 1000 cadono alla mia destra, e 10.000 alla mia sinistra, fa che il mio volto non divenga pallido e concedimi di morire per il Tenno". 
Poco tempo dopo, un altro componente della Tate no Kai, TSUKAMOTO Tadashi , seguirà l'esempio di MISHIMA : 
infranta una vetrina del Museo di Kamazawa, estrarrà una storica spada, e con essa si squarcerà ritualmente il ventre. 
Il mito di questo moderno Samurai ,che disse tra l'altro che 
"Ciò che trasforma il mondo non è la conoscenza ma l'azione.", attualmente è stato riportato in auge grazie al film del Regista americano Paul SCHRADER, che si intitola proprio come Lui, "MISHIMA", che usando le parole del Critico Alessandra ATTI DI SARRO altro non è che una "biografia che ha come filo conduttore le sequenze dello scrittore giapponese". 
MISHIMA scrisse, nella Sua "Difesa della cultura" : 
"Essere cosciente della vita e della cultura chiama al sacrifico di sé stessi per difendere la continuità stessa di questa vita. Quando si vede la cultura sprofondare nella sterilità, la sola possibilità per ridarle la vita è l'annientamento di sé stesso". Poco prima di morire scrisse, nel Suo libro preferito, lo 
" Hagakure ", breviario morale dei Samurai : 
"Nella limitatezza della umana vita, io scelgo la vita dell'eternità". Il suicidio di MISHIMA non è una conseguenza di uno stato di disperazione personale ma una esaltazione poetica della vitalità e grandezza patriottica dello scrittore, della fedeltà all'Imperatore ed ai valori tradizionali da questo incarnati, spinta ai massimi, estremi livelli. 
Questi, i Suoi "Jisei Nishu" (Canti d'Addio) : 
"Ancor prima delle generazioni e degli uomini riluttanti a sparire, a sparire sono i fiori e la bufera che soffia nella notte. 
I foderi delle lunghe spade tintinnano quando i valorosi dopo lunghi anni di sopportazione muoiono, oggi, al primo gelo". 
Il Suo atto è stato paragonato , da molti tradizionalisti ed ideologi di destra, ad una sorta di " piccola Pearl Harbour". 
Il motto di MISHIMA era : 
"In nome del passato abbasso l'avvenire !".

Bibliografia:

"La vita del samurai" - Bompiani

Secondo mio genero Gonnojo, gli uomini d’oggi si van facendo sempre più effeminati. E’ un’epoca, questa, in cui le persone di gradevole indole, le persone allegre, simpatiche, le persone che non mettono rancore, sono considerate virtuose. Quindi predomina la passività e la forte risolutezza non è più pregiata. (Hagakure, Libro II).
E’ un’epoca, la nostra, di “uomini graziosi e donne ardite”. Dovunque si volga lo sguardo, non mancano certo uomini simpatici. Ci circonda lo stereotipo dell’uomo gentile, benvoluto da tutti, mai abrasivo. Trabocca costui d’adattamento, di compiacenza, ma in fondo è un freddo opportunista. E’ questo che Hagakure chiama effeminatezza. La bellezza ideale non è fatta per essere amata: è bensì la bellezza della forza. Quando invece si cerca di essere belli per essere amati, ecco che comincia l’effeminatezza. Si adottano cosmetici spirituali. In un’epoca come la presente, allorché persino la medicina amara è avvolta nello zucchero, la gente accetta solo ciò che è grato al palato e facile da masticare. Il bisogno di opporre resistenza agli andazzi dell’età è lo stesso, oggi, come allora.

 

"Confessioni di una maschera"  Feltrinelli
"Dopo il banchetto"

 Feltrinelli
"Morte di mezza estate"

 Longanesi
"Neve di primavera"

Bompiani
"Cavalli in fuga"

Bompiani
"Il tempio dell'alba"

Bompiani
"Lo specchio degli inganni"

Bompiani
"Lezioni spirituali per giovani samurai" Feltrinelli

 

 

Poesie di addio al mondo "Jisei"

Masurao otoko ga
tabasamu tachi no
sayanari ni
ikutose taete
kyoo no hatsushimo.
(Yukio Mishima)

Prima brina, oggi,
per il guerriero
che tante volte
si è indurito
al suono della spada sfoderata.


Chiru wo itou
yo ni mo hito ni mo
sakigakete
chiru koso hana to
fuku sayoarashi.
(Yukio Mishima)

Non importa cadere.
Prima di tutto.
Prima di tutti.
E‘ proprio del fior di ciliegio
cadere nobilmente
in una notte di tempesta.


Kyoo ni kakete
kanete chikaishi
waga mune no
omoi wo shiru wa
nowake nomi ka wa.
(Masakatsu Morita)

Oggi, nel giorno atteso,
a conoscere quello
che è racchiuso nel mio cuore,
che da tempo ha giurato,
sarà la sola tempesta?


Hi to moyuru
Yamatogokoro wo
harukanaru
oomikokoro no
misonawasu made.
(Masayoshi Koga)

Ah, l‘amor di patria
che brucia come il fuoco!
Esso durerà fin quando
avrò la forza di non
distogliere lo sguardo
da Sua Maestà Perenne.


Kumo orabi
shirayuki sayagu
Fuji no ne no
uta no kokoro zo
mononofu no michi.
(Masayoshi Ogawa)

Tra una nuvola e l‘altra
cade bianca la neve.
E‘ il cuore della poesia
che canta il Fujiyama
la vera via del guerriero.


Shishi to nari
tora to naritemo
kuni no tame
masuraoburi mo
kami no mani mani.
(Hiroyasu Koga)

Non fa differenza combattere
da leone o tigre.
Se è per la patria,
anche la vita del guerriero
e‘ accolta tra gli dei.

 

PROCLAMA
Letto dallo scrittore il 25 novembre 1970, pochi 
istanti prima del seppuku - taglio del ventre - rituale
 

La nostra Tate-no Kai  si è sviluppata grazie al Jieitai (Forze di autodifesa) ; così possiamo ben dire, il Jieitai è nostro padre e fratello maggiore. Perché mai corrispondiamo a tale debito di gratitudine con una azione tanto ingrata? Guardando al passato abbiamo ricevuto nelle Forze di Autodifesa, io per quattro anni, gli altri membri per tre anni, un trattamento quasi come soldati del Jieitai, e un addestramento completamente disinteressato. Noi amiamo sinceramente il Jieitai, perché lì abbiamo imparato a sognare il "vero" Giappone al di fuori delle caserme militari, e proprio lì, abbiamo conosciuto lacrime virili che non avevamo potuto conoscere nel nostro Paese del dopoguerra. Abbiamo versato qui sudore genuino; abbiamo corso insieme ai camerati per le vallate del monte Fuji, accomunati dallo stesso amore per la Patria. Di questo non abbiamo il minimo dubbio. Per noi il Jieitai è stato la Patria, l'unico luogo in questo Giappone attuale indifferente a tutto, in cui si poteva respirare un'aria di intenso ardimento. E' immenso l'affetto che abbiamo ricevuto dagli istruttori. Perché dunque, nonostante ciò, siamo arrivati al punto di intraprendere una simile impresa? Può sembrare una scusa forzata, ma affermo che ciò avvenne per amore del Jieitai. Abbiamo visto come il Giappone del dopoguerra per seguire l'infatuazione della prosperità economica, abbia dimenticato i grandi fondamenti della nazione; lo abbiamo visto perdere lo spirito nazionale e correre verso il futuro, senza correggere il presente; lo abbiamo visto piombare nell'ipocrisia e precipitare nel vuoto spirituale. Abbiamo assistito stringendo i denti, al gioco della politica interna a dissimulare le contraddizioni, mentre sprofondava nell'ipocrisia e nella bramosia di potere. Abbiamo assistito alla difesa dei particolarismi e degli interessi personali. Abbiamo visto affidare a Paesi stranieri i piani riguardanti i prossimi cento anni della Nazione; abbiamo visto l'umiliazione della disfatta nascosta per non essere cancellata, e gli stessi nostri connazionali profanare la storia e le tradizioni del Giappone. Abbiamo sognato di vedere i veri Giapponesi e lo spirito dei veri samurai sopravvivere nel Jieitai. Tuttavia è chiaro che secondo la legge il Jieitai è incostituzionale e che la difesa, problema fondamentale per un paese, è stata dimenticata con opportunistiche interpretazioni legali. Proprio in questa circostanza, perché c'è un esercito che non porta questo nome, è da ricercare la causa fondamentale della degenerazione morale e del decadimento spirituale dei giapponesi. L'esercito che dovrebbe tenere in gran conto l'onore è stato oggetto di un inganno quanto mai malvagio. Il Jieitai ha continuato a portare il disonore della Nazione dopo la sconfitta. Non è stato riconosciuto come esercito nazionale, nè come nucleo su cui costruire un corpo armato; è diventato una specie di abnorme forza di polizia. Non gli è stato neppure chiaramente indicato a chi dichiarare fedeltà. Siamo furibondi per il troppo lungo sonno del Giappone del dopoguerra. Abbiamo creduto che il risveglio del Jieitai corrispondesse al momento del risveglio del Giappone! Ci siamo convinti che il Giappone dormiente si sveglierà solo quando il Jieitai si sveglierà. Siamo assolutamente certi che dobbiamo adoperarci al massimo, pur nei limiti delle nostre umili energie, come cittadini di questa Nazione, per far sì che un giorno, con un emendamento alla Costituzione, il Jieitai assurga al suo significato originale di nucleo su cui costruire un esercito, e poi diventi un autentico esercito nazionale. Quattro anni fa, entrai come volontario nello Jieitai, avendo ben chiaro questo proposito. L'anno dopo, fondai la Tate-no Kai. Alla base di questa Associazione sta la risoluzione di sacrificare la vita, per far destare il Jieitai, per farlo diventare un esercito nazionale, un esercito con una propria dignità. Se un emendamento alla Costituzione in tal senso è ormai impossibile, la sola e unica possibilità è un'azione che mobiliti l'ordine pubblico. Noi intendiamo offrire la vita per diventare l'avanguardia di questa mobilitazione, ci proponiamo di diventare una piccola pietra su cui fondare l'esercito nazionale. L'esercito protegge la Nazione, la polizia difende la struttura politica. Quando giunge il momento in cui le forze di polizia non riescono più a difendere la struttura politica, la Nazione si sente protetta grazie all'azione delle forze armate e queste riacquistano il loro valore originario. Tale principio fondamentale, consiste esclusivamente nel "difendere la storia, la cultura e le tradizioni del Giappone fondate sull'Imperatore". Noi, pur essendo pochi, ci siamo addestrati e ci siamo offerti volontari per rettificare i principi fondamentali della Nazione che sono stati travisati e distorti. Cosa è accaduto il 21 ottobre del 44° anno dell'era Showa (1969)? Una dimostrazione, l'ultima prima del viaggio in America del Primo Ministro, è stata soffocata dalle forze schiacciati della polizia. Ne fui testimone nel quartiere di Shinjuju (Tokio) e provai un profondo rammarico. In quell'occasione ho capito che in questo modo non era possibile far cambiare la Costituzione. Che cosa è successo quel giorno? Il governo si rese chiaramente conto dei limiti delle forze di estrema sinistra, dalla reazione del popolo nei confronti dell'intervento della polizia, non dissimile a un coprifuoco, trasse la sicurezza di poter riuscire a tenere sottocontrollo la situazione, anche senza dover arrivare alla spinosa questione dell'emendamento alla Costituzione. L'azione dell'esercito per ristabilire l'ordine pubblico divenne inutile. Il governo, per il mantenimento delle proprie strutture politiche, ha avuto la certezza che le forze di polizia erano assolutamente sufficienti. E queste non erano in conflitto con la Costituzione. Così il governo può continuare a fingere di ignorare il problema fondamentale del Paese! Il governo è riuscito a placare le forze di sinistra con la favola della difesa della Costituzione, ha rafforzato la sua politica che preferisce i vantaggi concreti all'onore, e si è proclamato difensore della Costituzione. Non curarsi della forma, dell'onore, preferire i vantaggi, per i politici può anche andar bene. Ma questi stessi politicanti non si sono accorti che per il Jieitai quell'episodio è stato una ferita mortale. Ed ecco, ancora più di prima, ipocrisia ed inganni, false promesse e sotterfugi. Questo giorno resti impresso nella vostra memoria! Il 21 ottobre del 44° anno dell'era Showa è stato per il Jieitai il giorno della tragedia. E' giorno il giorno in cui questa organizzazione, che da vent'anni, sin dalla sua fondazione, attendeva ansiosamente un emendamento alla Costituzione, ha visto tradire in maniera definitiva ogni sua speranza. In quel giorno l'emendamento alla Costituzione è stato escluso dal programma politico. In quel giorno il Jiminto (Partito Liberale Democratico) ed il Kyosanto (Partito Comunista), che insistono sull'importanza della politica parlamentare, hanno spazzato via ogni possibilità di ricorrere a metodi non parlamentari. Così, come conseguenza logica, il Jieitai, che fino ad allora era considerato un figlio illegittimo della Costituzione, da quel giorno fu riconosciuto come "Esercito di Protezione della Costituzione". Può esistere un paradosso più grande di questo? Da quel giorno noi abbiamo cominciato ad osservare attentamente il Jieitai. Se nel Jieitai, come avevamo sognato, sopravviveva lo spirito del samurai, come potevano i suoi membri tollerare questa situazione? Se siete uomini la vostra, fierezza virile, come può permettere tutto questo? Quando, continuando a sopportare, si oltrepassa anche l'ultima linea, che si dovrebbe difendere, è da uomo, da samurai, ribellarsi assolutamente. Noi, trepidamente siamo rimasti in ascolto. Ma nel Jieitai, non si è levata nessuna voce virile contro l'ordine vergognoso che dice:" Difendete la Costituzione che vi rinnega"! In questa circostanza, consapevoli delle vostre forze, sapendo che non esiste altra strada che quella di correggere la logica distorta della Nazione, voi del Jieitai siete rimasti in silenzio, come un canarino senza voce. Abbiamo provato dolore, sdegno e disperazione. Voi dite che non potete fare niente senza ordine. Ma, ahimè, i compiti che vi sono stati assegnati, non provengono dal Giappone. Si dice che il controllo civile sia la principale caratteristica di un esercito democratico. Ma in Inghilterra e in America, il controllo civile riguarda solo l'amministrazione finanziaria dell'esercito. Non consiste, come in Giappone, nell'essere soggiogati e maneggiati dai politici, che mutano col mutare delle stagioni, e nell'essere strumentalizzati da interessi di partito. Il Jieitai si è lasciato sedurre dalle lusinghe dei politici e percorre un sentiero che lo conduce all'autoinganno e all'autodissacrazione più profonda. Si è forse corrotto il suo spirito? Dov'è finito lo spirito dei samurai!? Il Jieitai è diventato un enorme arsenale privo di anima. Dove vuole andare? In un negoziato riguardante il settore tessile, alcuni imprenditori non hanno esitato a chiamare "traditore" il Partito Liberale Democratico (Jiminto), ma nel Jieitai nessun generale si è suicidato tagliandosi il ventre, per protesta, quando è risultato chiaro che il Trattato di Antiproliferazione Nucleare, che concerne i piani a lunga scadenza della nostra politica nazionale, era in pratica identico al Trattato ineguale del 5-5-3. E della restituzione di Okinawa che ne dite? E della responsabilità della difesa del territorio nazionale? E' evidente che l'America non desideri che un esercito giapponese veramente autonomo difenda il territorio del nostro paese. Se il Jieitai non riacquisterà la propria autonomia entro due anni, rimarrà per sempre, come afferma la sinistra, mercenario dell'America. Abbiamo aspettato quattro anni. L'ultimo anno con ansia. Ora non possiamo più aspettare! Non possiamo più aspettare qualcuno che continua a rinnegare se stesso. Tuttavia aspetterò ancora trenta minuti. gli ultimi trenta minuti! Insorgeremo insieme e moriremo insieme per la giusta causa. Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! E' bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l'esistenza di un valore superiore all'attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! E' il Giappone! E' il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo. Non c'è nessuno tra voi che desideri morire per sbattere il proprio corpo contro quella Costituzione che ha evirato il Giappone? Se c'è, che sorga e muoia con noi! Abbiamo intrapreso questa azione spinti dall'ardente desiderio che voi, che avete uno spirito puro, possiate tornare ad essere veri uomini, veri samurai!

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